mercoledì, gennaio 21, 2009

 

Il commento di Vittorio Zucconi (da Repubblica)


Una giornata che ha voluto riconciliare l'America divisa da 8 anni di guerra
Nel discorso di Obama, una svolta culturale e politica profonda.


Addio all'ideologia di Bush
Obama tende la mano al mondo

WASHINGTON -
"Un uomo che sessanta anni or sono non sarebbe neppure stato servito in un ristorante, oggi presta giuramento per assumere la più alta carica della nazione". Da queste parole, che riassumono senza retorica e senza arroganza l'enormità di quello che abbiamo visto ieri a Washington, deve partire il racconto di una giornata che ha voluto riconciliare l'America straziata e divisa da otto anni di guerra ideologica e di guerra militare, da "falsi dogmi e false promesse". E che non si può più permettere di tergiversare o di nascondersi nella partigianeria: "Se siamo arrivati sotto nubi nere che si addensano sopra di noi è perché non abbiamo fatto le scelte difficili. Il tempo di farle comincia oggi".

Ben oltre l'emozione di un giorno e di una folla come Washington non aveva mai visto nella propria storia, non per funerali, celebrazioni, insediamenti, dimostrazioni che pure l'hanno investita e allagata per due secoli, l'esordio di Barack Hussein Obama ha mostrato, sotto l'eleganza dell'oratoria e della presentazione, le unghie di una svolta culturale e politica profonda, che si può riassumere nella necessità di rispettare insieme "il diritto" e i "valori della democrazia", non potendo l'una esistere senza gli altri.

Ci si attendeva una "lista della lavandaia" di promesse e programmi di azione alla New Deal, che non ha fatto. Quello che ha fatto è stato rovesciare l'ottica miope della cultura repubblicana dominante tra Reagan e Bush e riportare il mondo al centro delle preoccupazioni americane, e non più l'America al centro del mondo. Questo senso di un capovolgimento della clessidra, della riapertura a un mondo che l'angoscia delle Torri Gemelle aveva sbarrato nell'unilateralismo bushista e nella seduzione della forza è quello che ha portato ieri forse due milioni di persone lungo i tre chilometri della spianata fra il Congresso e il mausoleo di Lincoln.

Erano turisti della storia e della speranza venuti dall'Africa e dall'Asia, dal Caribe e dall'Europa, da tutti gli stati americani per rinnovare quel patto di ammirazione e di solidarietà ideale con un'America dalla quale si erano sentiti traditi. O considerati come pedine da spostare o rovesciare in base a teorie, dottrine o false teoremi. Invece "il terreno ci è cambiato sotto i piedi e non possiamo continuare come prima". L'illusione di poter proteggere una democrazia dai propri nemici interni ed esterni sottraendo pezzi di diritti costituzionali nel nome della sicurezza viene catalogata tra "le false promesse e i falsi dogmi".

Il resto del mondo va affrontato "in pace, con dignità e umiltà", perché la forza militare "da sola non ci protegge, né ci autorizzare a fare quello che vogliamo". "Noi tendiamo la mano a tutti coloro che la tendono aperta verso di noi, sciogliendo il pugno".
Siamo non soltanto oltre il bushismo o almeno quella cosiddetta e mai ben definita "dottrina Bush" che fu adottata nel panico dopo l'orrore dell'11 settembre, ma anche oltre il "pagare ogni prezzo o portare ogni peso" di John F. Kennedy alla sua inauguration del gennaio 1961.

Non mancheranno coloro che accuseranno questo giovane uomo che nasconde sotto un autocontrollo titanico le emozioni che abbiamo visto sgorgare quando la moglie gli ha posato la mano guantata sulla spalle per calmarlo durante un'esecuzione musicale completamente inutile e poi nell'impappinarsi al momento di giurare, di essere un ingenuo, un "buonista", che non capisce la realtà oltre il Potomac.

Ma ancora più deluso sarà che si era immaginato che da lui sarebbe venuto l'annuncio di manifesti ideologici, di programmi pubblici di lavoro e di investimenti che ha ridotto invece alla promessa di puntellare l'economia, non di sostituire lo Stato al mercato. "Il governo non è né la soluzione né il problema", come i vecchi liberal e i nuovi reaganiani avevano sostenuto dogmaticamente accapigliandosi senza mai risolvere il dramma delle recessioni periodiche.

Il problema è sapere fare le "scelte difficili" quando vanno fatte, di "tenere gli occhi sempre aperti e vigili sul mercato" che lasciato a se stesso "si avvita fuori controllo. Arriveranno regole, tasse (da pagare, non da evadere) e fiumi di danaro pubblico su imprese e infrastrutture. E soprattutto, è urgente il ritorno alla "responsabilità", la parola sulla quale ha insistito e già batteva in campagna elettorale, mentre i repubblicano lo dipingevano come la reincarnazione di Marx e ed Engels, irritando anche la propria base afro Americana, abituato a essere coccolata e lisciata dei predicatori del vittimismo.

La piccola, e per ora soltanto retorica, rivoluzione culturale che il 44esimo presidente Americano ha proposto, incarnando come nessun avrebbe potuto fare in maniera più evidente l'ansia collettiva di cambiare, sta nel promettere di riportare al cuore dell'amministrazione pubblica "verità, responsabilità e diritto", non "i falsi dogmi", sventolati per dividere e vincere le elezioni, senza poi poter governare. Certamente, "sconfiggeremo i terroristi", "lasceremo l'Iraq al suo popolo", "tenderemo la mano a chi aprirà il pugno e scioglierà la sua mano".

Ma questo presidente, l'uomo che non avrebbe potuto entrare in gabinetto pubblico una generazione fa e da ieri notte dorme con le due figlie bambine (ammesso che siano riuscite a dormire) nella casa dove anche Churchill sentiva gli spettri, ha risposto alla folla che ha risposto a lui ricordando che l'America ha vinto le proprie guerre con la potenza della propria "umiltà" e con la difesa dei propri valori civili e non con la "falsa scelta" (quante volte questa allusione al "falso" è tornata nel discorso tra cannoni e costituzionale. Una verità che nessuno come qualcuno che ha "sentito schioccare la frusta sulla pelle" dei proprio fratelli e sorelle potrebbe testimoniare meglio, nel giorno in cui l'America migliore sembra essere finalmente tornata fra noi, nel mondo.
(21 gennaio 2009)

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Da ricordare e conservare


Il discorso di Barack Obama il giorno dell' insediamento.
Washington 20 gennaio 2009


qui sotto in la trascrizione del NYT, seguita dalla traduzione italiana (CdS)

PRESIDENT BARACK Thank you. Thank you.

My fellow citizens: I stand here today humbled by the task before us, grateful for the trust you have bestowed, mindful of the sacrifices borne by our ancestors.

I thank President Bush for his service to our nation...

(APPLAUSE)

... as well as the generosity and cooperation he has shown throughout this transition.

Forty-four Americans have now taken the presidential oath.

The words have been spoken during rising tides of prosperity and the still waters of peace. Yet, every so often the oath is taken amidst gathering clouds and raging storms. At these moments, America has carried on not simply because of the skill or vision of those in high office, but because We the People have remained faithful to the ideals of our forbearers, and true to our founding documents.

So it has been. So it must be with this generation of Americans.

That we are in the midst of crisis is now well understood. Our nation is at war against a far-reaching network of violence and hatred. Our economy is badly weakened, a consequence of greed and irresponsibility on the part of some but also our collective failure to make hard choices and prepare the nation for a new age.

Homes have been lost, jobs shed, businesses shuttered. Our health care is too costly, our schools fail too many, and each day brings further evidence that the ways we use energy strengthen our adversaries and threaten our planet.

These are the indicators of crisis, subject to data and statistics. Less measurable, but no less profound, is a sapping of confidence across our land; a nagging fear that America's decline is inevitable, that the next generation must lower its sights.

Today I say to you that the challenges we face are real, they are serious and they are many. They will not be met easily or in a short span of time. But know this America: They will be met.

(APPLAUSE)

On this day, we gather because we have chosen hope over fear, unity of purpose over conflict and discord.

On this day, we come to proclaim an end to the petty grievances and false promises, the recriminations and worn-out dogmas that for far too long have strangled our politics.

We remain a young nation, but in the words of Scripture, the time has come to set aside childish things. The time has come to reaffirm our enduring spirit; to choose our better history; to carry forward that precious gift, that noble idea, passed on from generation to generation: the God-given promise that all are equal, all are free, and all deserve a chance to pursue their full measure of happiness.

(APPLAUSE)

In reaffirming the greatness of our nation, we understand that greatness is never a given. It must be earned. Our journey has never been one of shortcuts or settling for less.

It has not been the path for the faint-hearted, for those who prefer leisure over work, or seek only the pleasures of riches and fame.

Rather, it has been the risk-takers, the doers, the makers of things -- some celebrated, but more often men and women obscure in their labor -- who have carried us up the long, rugged path towards prosperity and freedom.

For us, they packed up their few worldly possessions and traveled across oceans in search of a new life. For us, they toiled in sweatshops and settled the West, endured the lash of the whip and plowed the hard earth.

For us, they fought and died in places Concord and Gettysburg; Normandy and Khe Sahn.

Time and again these men and women struggled and sacrificed and worked till their hands were raw so that we might live a better life. They saw America as bigger than the sum of our individual ambitions; greater than all the differences of birth or wealth or faction.

This is the journey we continue today. We remain the most prosperous, powerful nation on Earth. Our workers are no less productive than when this crisis began. Our minds are no less inventive, our goods and services no less needed than they were last week or last month or last year. Our capacity remains undiminished. But our time of standing pat, of protecting narrow interests and putting off unpleasant decisions -- that time has surely passed.

Starting today, we must pick ourselves up, dust ourselves off, and begin again the work of remaking America.

(APPLAUSE)

For everywhere we look, there is work to be done.

The state of our economy calls for action: bold and swift. And we will act not only to create new jobs but to lay a new foundation for growth.

We will build the roads and bridges, the electric grids and digital lines that feed our commerce and bind us together.

We will restore science to its rightful place and wield technology's wonders to raise health care's quality...

(APPLAUSE)

... and lower its costs.

We will harness the sun and the winds and the soil to fuel our cars and run our factories. And we will transform our schools and colleges and universities to meet the demands of a new age.

All this we can do. All this we will do.

Now, there are some who question the scale of our ambitions, who suggest that our system cannot tolerate too many big plans. Their memories are short, for they have forgotten what this country has already done, what free men and women can achieve when imagination is joined to common purpose and necessity to courage.

What the cynics fail to understand is that the ground has shifted beneath them, that the stale political arguments that have consumed us for so long, no longer apply.

MR. The question we ask today is not whether our government is too big or too small, but whether it works, whether it helps families find jobs at a decent wage, care they can afford, a retirement that is dignified.

Where the answer is yes, we intend to move forward. Where the answer is no, programs will end.

And those of us who manage the public's dollars will be held to account, to spend wisely, reform bad habits, and do our business in the light of day, because only then can we restore the vital trust between a people and their government.

Nor is the question before us whether the market is a force for good or ill. Its power to generate wealth and expand freedom is unmatched.

But this crisis has reminded us that without a watchful eye, the market can spin out of control. The nation cannot prosper long when it favors only the prosperous.

The success of our economy has always depended not just on the size of our gross domestic product, but on the reach of our prosperity; on the ability to extend opportunity to every willing heart -- not out of charity, but because it is the surest route to our common good.

(APPLAUSE)

As for our common defense, we reject as false the choice between our safety and our ideals.

Our founding fathers faced with perils that we can scarcely imagine, drafted a charter to assure the rule of law and the rights of man, a charter expanded by the blood of generations.

Those ideals still light the world, and we will not give them up for expedience's sake.

And so, to all other peoples and governments who are watching today, from the grandest capitals to the small village where my father was born: know that America is a friend of each nation and every man, woman and child who seeks a future of peace and dignity, and we are ready to lead once more.

(APPLAUSE)

Recall that earlier generations faced down fascism and communism not just with missiles and tanks, but with the sturdy alliances and enduring convictions.

They understood that our power alone cannot protect us, nor does it entitle us to do as we please. Instead, they knew that our power grows through its prudent use. Our security emanates from the justness of our cause; the force of our example; the tempering qualities of humility and restraint.

We are the keepers of this legacy, guided by these principles once more, we can meet those new threats that demand even greater effort, even greater cooperation and understanding between nations. We'll begin to responsibly leave Iraq to its people and forge a hard- earned peace in Afghanistan.

With old friends and former foes, we'll work tirelessly to lessen the nuclear threat and roll back the specter of a warming planet.

We will not apologize for our way of life nor will we waver in its defense.

And for those who seek to advance their aims by inducing terror and slaughtering innocents, we say to you now that, "Our spirit is stronger and cannot be broken. You cannot outlast us, and we will defeat you."

(APPLAUSE)

For we know that our patchwork heritage is a strength, not a weakness.

We are a nation of Christians and Muslims, Jews and Hindus, and nonbelievers. We are shaped by every language and culture, drawn from every end of this Earth.

And because we have tasted the bitter swill of civil war and segregation and emerged from that dark chapter stronger and more united, we cannot help but believe that the old hatreds shall someday pass; that the lines of tribe shall soon dissolve; that as the world grows smaller, our common humanity shall reveal itself; and that America must play its role in ushering in a new era of peace.

To the Muslim world, we seek a new way forward, based on mutual interest and mutual respect.

To those leaders around the globe who seek to sow conflict or blame their society's ills on the West, know that your people will judge you on what you can build, not what you destroy.

To those...

(APPLAUSE)

To those who cling to power through corruption and deceit and the silencing of dissent, know that you are on the wrong side of history, but that we will extend a hand if you are willing to unclench your fist.

(APPLAUSE)

To the people of poor nations, we pledge to work alongside you to make your farms flourish and let clean waters flow; to nourish starved bodies and feed hungry minds.

And to those nations like ours that enjoy relative plenty, we say we can no longer afford indifference to the suffering outside our borders, nor can we consume the world's resources without regard to effect. For the world has changed, and we must change with it.

As we consider the road that unfolds before us, we remember with humble gratitude those brave Americans who, at this very hour, patrol far-off deserts and distant mountains. They have something to tell us, just as the fallen heroes who lie in Arlington whisper through the ages.

We honor them not only because they are guardians of our liberty, but because they embody the spirit of service: a willingness to find meaning in something greater than themselves.

And yet, at this moment, a moment that will define a generation, it is precisely this spirit that must inhabit us all.

For as much as government can do and must do, it is ultimately the faith and determination of the American people upon which this nation relies.

It is the kindness to take in a stranger when the levees break; the selflessness of workers who would rather cut their hours than see a friend lose their job which sees us through our darkest hours.

It is the firefighter's courage to storm a stairway filled with smoke, but also a parent's willingness to nurture a child, that finally decides our fate.

Our challenges may be new, the instruments with which we meet them may be new, but those values upon which our success depends, honesty and hard work, courage and fair play, tolerance and curiosity, loyalty and patriotism -- these things are old.

These things are true. They have been the quiet force of progress throughout our history.

What is demanded then is a return to these truths. What is required of us now is a new era of responsibility -- a recognition, on the part of every American, that we have duties to ourselves, our nation and the world, duties that we do not grudgingly accept but rather seize gladly, firm in the knowledge that there is nothing so satisfying to the spirit, so defining of our character than giving our all to a difficult task.

This is the price and the promise of citizenship.

This is the source of our confidence: the knowledge that God calls on us to shape an uncertain destiny.

This is the meaning of our liberty and our creed, why men and women and children of every race and every faith can join in celebration across this magnificent mall. And why a man whose father less than 60 years ago might not have been served at a local restaurant can now stand before you to take a most sacred oath.

(APPLAUSE)

So let us mark this day in remembrance of who we are and how far we have traveled.

In the year of America's birth, in the coldest of months, a small band of patriots huddled by dying campfires on the shores of an icy river.

The capital was abandoned. The enemy was advancing. The snow was stained with blood.

At a moment when the outcome of our revolution was most in doubt, the father of our nation ordered these words be read to the people:

"Let it be told to the future world that in the depth of winter, when nothing but hope and virtue could survive, that the city and the country, alarmed at one common danger, came forth to meet it."

America, in the face of our common dangers, in this winter of our hardship, let us remember these timeless words; with hope and virtue, let us brave once more the icy currents, and endure what storms may come; let it be said by our children's children that when we were tested we refused to let this journey end, that we did not turn back nor did we falter; and with eyes fixed on the horizon and God's grace upon us, we carried forth that great gift of freedom and delivered it safely to future generations.

Thank you. God bless you.

(APPLAUSE)

And God bless the United States of America.

(APPLAUSE)

Concittadini, oggi sono qui di fronte a voi con umiltà di fronte all'incarico, grato per la fiducia che avete accordato, memore dei sacrifici sostenuti dai nostri antenati. Ringrazio il presidente Bush per il suo servizio alla nostra nazione, come anche per la generosità e la cooperazione che ha dimostrato durante questa transizione.

Sono quarantaquattro gli americani che hanno giurato come presidenti. Le parole sono state pronunciate nel corso di maree montanti di prosperità e in acque tranquille di pace. Ancora, il giuramento è stato pronunciato sotto un cielo denso di nuvole e tempeste furiose. In questi momenti, l'America va avanti non semplicemente per il livello o per la visione di coloro che ricoprono l'alto ufficio, ma perché noi, il popolo, siamo rimasti fedeli agli ideali dei nostri antenati, e alla verità dei nostri documenti fondanti. Così è stato. Così deve essere con questa generazione di americani.

Che siamo nel mezzo della crisi ora è ben compreso. La nostra nazione è in guerra, contro una rete di vasta portata di violenza e odio. La nostra economia è duramente indebolita, in conseguenza dell'avidità e dell'irresponsabilità di alcuni, ma anche del nostro fallimento collettivo nel compiere scelte dure e preparare la nazione a una nuova era. Case sono andate perdute; posti di lavoro tagliati, attività chiuse. La nostra sanità è troppo costosa, le nostre scuole trascurano troppi; e ogni giorno aggiunge un'ulteriore prova del fatto che i modi in cui usiamo l'energia rafforzano i nostri avversari e minacciano il nostro pianeta.

Questi sono indicatori di crisi, soggetto di dati e di statistiche. Meno misurabile ma non meno profondo è l'inaridire della fiducia nella nostra terra: la fastidiosa paura che il declino dell'America sia inevitabile, e che la prossima generazione debba ridurre le proprie mire. Oggi vi dico che le sfide che affrontiamo sono reali. Sono serie e sono molte. Non saranno vinte facilmente o in un breve lasso di tempo. Ma sappi questo, America: saranno vinte. In questo giorno, ci riuniamo perché abbiamo scelto la speranza sulla paura, l'unità degli scopi sul conflitto e la discordia. In questo giorno, veniamo per proclamare la fine delle futili lagnanze e delle false promesse, delle recriminazioni e dei dogmi logori, che per troppo a lungo hanno strangolato la nostra politica.

Rimaniamo una nazione giovane, ma, nelle parole della Scrittura, il tempo è venuto di mettere da parte le cose infantili. Il tempo è venuto di riaffermare il nostro spirito durevole; di scegliere la nostra storia migliore; di riportare a nuovo quel prezioso regalo, quella nobile idea, passata di generazione in generazione: la promessa mandata del cielo che tutti sono uguali, tutti sono liberi, e tutti meritano una possibilità per conseguire pienamente la loro felicità.

Nel riaffermare la grandezza della nostra nazione, capiamo che la grandezza non va mai data per scontata. Bisogna guadagnarsela. Il nostro viaggio non è mai stato fatto di scorciatoie o di ribassi. Non è stato un sentiero per i deboli di cuore, per chi preferisce l’ozio al lavoro, o cerca solo i piaceri delle ricchezze e della celebrità. E’ stato invece il percorso di chi corre rischi, di chi agisce, di chi fabbrica: alcuni celebrato ma più spesso uomini e donne oscuri nelle loro fatiche, che ci hanno portato in cima a un percorso lungo e faticoso verso la prosperità e la libertà.

Per noi hanno messo in valigia le poche cose che possedevano e hanno traversato gli oceani alla ricerca di una nuova vita.

Per noi hanno faticato nelle fabbriche e hanno colonizzato il West; hanno tollerato il morso della frusta e arato il duroterreno.

Per noi hanno combattuto e sono morti in posti come Concord e Gettysburg, la Normandia e Khe Sahn.

Ancora e ancora questi uomini e queste donne hanno lottato e si sono sacrificati e hanno lavorato fino ad avere le mani in sangue, perché noi potessimo avere un futuro migliore. Vedevano l’America come più grande delle somme delle nostre ambizioni individuali, più grande di tutte le differenze di nascita o censo o partigianeria.

Questo è il viaggio che continuiamo oggi. Rimaniamo il paese più prosperoso e più potente della Terra. I nostri operai non sono meno produttivi di quando la crisi è cominciata. Le nostre menti non sono meno inventive, i nostri beni e servizi non meno necessari della settimana scorsa o del mese scorso o dell’anno scorso. Le nostre capacità rimangono intatte. Ma il nostro tempo di stare fermi, di proteggere interessi meschini e rimandare le decisioni sgradevoli, quel tempo di sicuro è passato. A partire da oggi, dobbiamo tirarci su, rimetterci in piedi e ricominciare il lavoro di rifare l’America.

Perché ovunque guardiamo, c’è lavoro da fare. Lo stato dell’economia richiede azioni coraggiose e rapide, e noi agiremo: non solo per creare nuovi lavori ma per gettare le fondamenta della crescita. Costruiremo le strade e i ponti, le reti elettriche, le linee digitali per nutrire il nostro commercio e legarci assieme. Ridaremo alla scienza il posto che le spetta di diritto e piegheremo le meraviglie della tecnologia per migliorare le cure sanitarie e abbassarne i costi. Metteremo le briglie al sole e ai venti e alla terra per rifornire le nostre vetture e alimentare le nostre fabbriche. E trasformeremo le nostre scuole e i college e le università per soddisfare le esigenze di una nuova era. Tutto questo possiamo farlo. E tutto questo faremo.

Ci sono alcuni che mettono in dubbio l’ampiezza delle nostre ambizioni, che suggeriscono che il nostro sistema non può tollerare troppi piani grandiosi. Hanno la memoria corta. Perché hanno dimenticato quanto questo paese ha già fatto: quanto uomini e donne libere possono ottenere quando l’immaginazione si unisce a uno scopo comune, la necessità al coraggio.

Quello che i cinici non riescono a capire è che il terreno si è mosso sotto i loro piedi, che i diverbi politici stantii che ci hanno consumato tanto a lungo non hanno più corso. La domanda che ci poniamo oggi non è se il nostro governo sia troppo grande o troppo piccolo, ma se funziona: se aiuta le famiglie a trovare lavori con stipendi decenti, cure che possono permettersi, unapensione dignitosa. Quando la risposta è sì, intendiamo andareavanti. Quando la risposta è no, i programmi saranno interrotti. E quelli di noi che gestiscono i dollari pubblici saranno chiamati a renderne conto: a spendere saggiamente, a riformare le cattive abitudini, e fare il loro lavoro alla luce del solo, perché solo allora potremo restaurare la fiducia vitale fra un popolo e il suo governo.

Né la domanda è se il mercato sia una forza per il bene o per il male. Il suo potere di generare ricchezza e aumentare la libertànon conosce paragoni, ma questa crisi ci ha ricordato che senza occhi vigili, il mercato può andare fuori controllo, e che unpaese non può prosperare a lungo se favorisce solo i ricchi. Il successo della nostra economia non dipende solo dalle dimensioni del nostro prodotto interno lordo, ma dall’ampiezza della nostra prosperità, dalla nostra capacità di ampliare le opportunità a ogni cuore volonteroso, non per beneficenza ma perché è la via più sicura verso il bene comune.

Per quel che riguarda la nostra difesa comune, respingiamo come falsa la scelta tra la nostra sicurezza e i nostri ideali. I Padri Fondatori, di fronte a pericoli che facciamo fatica a immaginare, prepararono un Carta che garantisse il rispetto della legge e i diritti dell’uomo, una Carta ampliata con il sangue versato da generazioni. Quegli ideali illuminano ancora il mondoe non vi rinunceremo in nome del bisogno. E a tutte le persone e i governi che oggi ci guardano, dalle capitali più grandi al piccolo villaggio in cui nacque mio padre, dico: sappiate che l’America è amica di ogni nazione e di ogni uomo, donna e bambino che cerca un futuro di pace e dignità, e che siamo pronti di nuovo a fare da guida.

Ricordate che le generazioni passate sconfissero il fascismo e il comunismo non solo con i carri armati e i missili, ma con alleanze solide e convinzioni tenaci. Capirono che la nostra forza da sola non basta a proteggerci, né ci dà il diritto di fare come ci pare. Al contrario, seppero che il potere cresce quando se ne fa un uso prudente; che la nostra sicurezza promana dal fatto che la nostra causa giusta, dalla forza del nostro esempio, dalle qualità dell’umiltà e della moderazione.

Noi siamo i custodi di questa eredità. Guidati ancora una volta da questi principi, possiamo affrontare quelle nuove minacce cherichiedono sforzi ancora maggiori - e ancora maggior cooperazione e comprensione fra le nazioni. Inizieremo a lasciare responsabilmente l’Iraq al suo popolo, e a forgiare una pace pagata a caro prezzo in Afghanistan. Insieme ai vecchi amici e agli ex nemici, lavoreremo senza sosta per diminuire la minaccia nucleare, e allontanare lo spettro di un pianeta surriscaldato. Non chiederemo scusa per la nostra maniera di vivere, né esiteremo a difenderla, e a coloro che cercano di ottenere i loro scopi attraverso il terrore e il massacro di persone innocenti, diciamo che il nostro spirito è più forte e non potrà essere spezzato. Non riuscirete a sopravviverci, e vi sconfiggeremo.

Perché sappiamo che il nostro multiforme retaggio è una forza, non una debolezza: siamo un Paese di cristiani, musulmani, ebrei e indù - e di non credenti; scolpiti da ogni lingua e cultura, provenienti da ogni angolo della terra. E dal momento che abbiamo provato l’amaro calice della guerra civile e della segregazione razziale, per emergerne più forti e più uniti, non possiamo che credere che odii di lunga data un giorno scompariranno; che i confini delle tribù un giorno si dissolveranno; che mentre il mondo si va facendo più piccolo, la nostra comune umanità dovrà venire alla luce; e che l’America dovrà svolgere un suo ruolo nell’accogliere una nuova era di pace.

Al mondo islamico diciamo di voler cercare una nuova via di progresso, basato sull’interesse comune e sul reciproco rispetto. A quei dirigenti nel mondo che cercano di seminare la discordia, o di scaricare sull’Occidente la colpa dei mali delle loro società, diciamo: sappiate che il vostro popolo vi giudicherà in base a ciò che siete in grado di costruire, non di distruggere. A coloro che si aggrappano al potere grazie alla corruzione, all’inganno, alla repressione del dissenso, diciamo: sappiate che siete dalla parte sbagliata della Storia; ma che siamo disposti a tendere la mano se sarete disposti a sciogliere il pugno.

Ai popoli dei Paesi poveri, diciamo di volerci impegnare insieme a voi per far rendere le vostre fattorie e far scorrere acque pulita; per nutrire i corpi e le menti affamate. E a quei Paesi che come noi hanno la fortuna di godere di una relativa abbondanza, diciamo che non possiamo più permetterci di essere indifferenti verso la sofferenza fuori dai nostri confini; né possiamo consumare le risorse del pianeta senza pensare alle conseguenze. Perché il mondo è cambiato, e noi dobbiamo cambiare insieme al mondo.

Volgendo lo sguardo alla strada che si snoda davanti a noi, ricordiamo con umile gratitudine quei coraggiosi americani che in questo stesso momento pattugliano deserti e montagne lontane. Oggi hanno qualcosa da dirci, così come il sussurro che ci arriva lungo gli anni dagli eroi caduti che riposano ad Arlington: rendiamo loro onore non solo perché sono custodi della nostra libertà, ma perché rappresentano lo spirito di servizio, la volontà di trovare un significato in qualcosa che li trascende. Eppure in questo momento - un momento che segnerà una generazione - è precisamente questo spirito che deve animarci tutti.

Perché, per quanto il governo debba e possa fare, in definitiva sono la fede e la determinazione del popolo americano su cui questo Paese si appoggia. E’ la bontà di chi accoglie uno straniero quando le dighe si spezzano, l’altruismo degli operai che preferiscono lavorare meno che vedere un amico perdere il lavoro, a guidarci nelle nostre ore più scure. E’ il coraggio del pompiere che affronta una scala piena di fumo, ma anche la prontezza di un genitore a curare un bambino, che in ultima analisi decidono il nostro destino.

Le nostre sfide possono essere nuove, gli strumenti con cui le affrontiamo possono essere nuovi, ma i valori da cui dipende il nostro successo - il lavoro duro e l’onestà, il coraggio e il fair play, la tolleranza e la curiosità, la lealtà e il patriottismo - queste cose sono antiche. Queste cose sono vere. Sono state la quieta forza del progresso in tutta la nostra storia. Quello che serve è un ritorno a queste verità. Quello che ci è richiesto adesso è una nuova era di responsabilità - un riconoscimento, da parte di ogni americano, che abbiamo doveri verso noi stessi, verso la nazione e il mondo, doveri che non accettiamo a malincuore ma piuttosto afferriamo con gioia, saldi nella nozione che non c’è nulla di più soddisfacente per lo spirito, di più caratteristico della nostra anima, che dare tutto a un compito difficile.

Questo è il prezzo e la promessa della cittadinanza.

Questa è la fonte della nostra fiducia: la nozione che Dio ci chiama a forgiarci un destino incerto. Questo il significato della nostra libertà e del nostro credo: il motivo per cui uomini e donne e bambine di ogni razza e ogni fede possono unirsi in celebrazione attraverso questo splendido viale, e per cui un uomo il cui padre sessant’anni fa avrebbe potuto non essere servito al ristorante oggi può starvi davanti a pronunciare un giuramento sacro.

E allora segnamo questo giorno col ricordo di chi siamo e quanta strada abbiamo fatto. Nell’anno della nascita dell’America, nel più freddo dei mesi, un drappello di patrioti si affollava vicino a fuochi morenti sulle rive di un fiume gelato. La capitale era abbandonata. Il nemico avanzava, la neve era macchiata di sangue. E nel momento in cui la nostra rivoluzione più era in dubbio, il padre della nostra nazione ordinò che queste parole fossero lette al popolo: “Che si dica al mondo futuro... Che nel profondo dell’inverno, quando nulla tranne la speranza e il coraggio potevano sopravvivere... Che la città e il paese, allarmati di fronte a un comune pericolo, vennero avanti a incontrarlo”.

America. Di fronte ai nostri comuni pericoli, in questo inverno delle nostre fatiche, ricordiamoci queste parole senza tempo. Con speranza e coraggio, affrontiamo una volta ancora le correnti gelide, e sopportiamo le tempeste che verranno. Che i figli dei nostri figli possano dire che quando fummo messi alla prova non ci tirammo indietro né inciampammo; e con gli occhi fissi sull’orizzonte e la grazia di Dio con noi, portammo avanti quel grande dono della libertà, e lo consegnammo intatto alle generazioni future.




20 gennaio 2009

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sabato, gennaio 17, 2009

 

Bar sulla guerra, altro che discorsi da bar...

Mentre sempre più spesso i discorsi politici dei nostri governanti sembrano tratti direttamente dalle dichiarazioni di certi incauti avventori dei bar, alla terza ombra de vin, l'israeliano Bar propone delle riflessioni sulle cause della guerra che mi sembrano di ben altro spessore e profondità.
data la vastità della tragedia in atto, la soluzione che viene proposta è acuta e affascinante.
è (meglio dire sarebbe, purtroppo) l'unica che in prospettiva può dare ai bambini la gioia di vivere e di giocare con qualcosa di diverso dalle armi...
enjoy!
gufo

La causa della guerra

E' molto affascinante, triste ma affascinante, osservare come la guerra a
Gaza e nel sud di Israele viene raccontata. Chi l'ha cominciata? Chi è
responsabile? E' Hamas, che ha dichiarato la fine della tregua e che
aumentato il numero di razzi quotidianamente lanciati ai civili israeliani?
E' Israele, che aveva attaccato miliziani di Hamas durante la tregua? E'
Hamas, che durante la tregua lanciava razzi? E' Israele, che durante la
tregua assediava la striscia di Gaza? E' Hamas, che per dichiarazione,
identità e azione fa parte di un diverso tipo di assedio su Israele? E'
Israele, che...? E' Hamas, che...?

La causa della guerra dipende da chi parla, della sua storia, della sua
identità e della sua cultura. Possiamo imparare tanto su chi parla
attraverso la causa che attribuisce alla guerra. Possiamo però capire la
vera causa della guerra? E' affascinante, triste ma affascinante, che gli
esperti politici e i giornalisti non possono offrirci meglio che un
dibattito su quale evento è stato la vera causa della guerra.

Recentemente ho sentito un dibattito, non in aula ma per strada. Una
raccontava dell'esperienza di "kfar aza", una cittadina agricola israeliana
di 600 persone vicino alla striscia di Gaza, che per gli ultimi otto anni è
stata vittima continua di razzi. Nessuno è stato ucciso, dice, ma non vuol
dire che nessuno è stato colpito. I bambini soffrono tutti dei sintomi del
trauma, bagnano il letto, alta ansia, piangono. Possiamo immaginare la
crescita di un bambino così, che vive otto anni in una situazione di guerra?

L'altra parte del dibattito paragonava la situazione di quel bambino alla
situazione di un altro a Gaza, dove subisce non solo il terrore militare ma
anche la povertà e la morte dei famigliari. Come cresce un bambino così?

Credo che possiamo tutti immaginare come saranno questi due bambini da
adulti. Secondo voi, potranno fare la pace? Sembra banale ma è importante
dirlo: la causa della guerra è la guerra. Sia gli israeliani che i
palestinesi hanno subito il terrore. Sono terrorizzati. Una persona stabile,
che si sente sicuro di sé, con rapporti sociali sani, seguirà una politica
di assedio su una popolazione già povera, o vota e sostiene chi lo fa? No.
Una persona terrorizzata? Sì. Una persona con un cuore tranquillo e in pace,
che possiede strumenti per gestire le difficoltà della vita manda bambini e
ragazze a saltare in area per uccidere civili innocenti? No. Una persona
terrorizzata? Sì.

E' anche affascinante, triste ma affascinante, che una persona terrorizzata,
traumatizzata, non riesce a prendere responsabilità per le proprie azioni e
invece crede si stare solo "reagendo" all'azione dell'altro. Sono cechi al
fatto che la loro "reazione" diventa la prossima causa del "azione"
dell'altro.

Noi in Italia non stiamo lanciando razzi né squadre di aerei (esportando le
mine e le pistole sì però). Ringraziamo Dio che l'infanzia per la maggior
parte di noi è stata in condizioni migliori, che siamo capaci di dormire
tranquillamente e senza incubi, che riusciamo più o meno ad avere rapporti
sani, che non siamo travolti dall'odio. Questo è l'unico motivo per cui non
ci stiamo comportando adesso esattamente come Israele e Hamas. Un'altra cosa
tristemente affascinante? Che nonostante ciò, ogni volta che prendiamo una
parte o un'altra della guerra stiamo rafforzando il terrore e il trauma di
tutte e due le parti. Facciamo alla "nostra" parte sentirsi giustificata
nella violenza e nel essere la "vera" vittima, togliendola la responsabilità
e quindi incoraggiandola nella sua "reazione" che le porterà solo più
sofferenza nel futuro. Facciamo all'"altra" parte sentirsi ancora più
isolata, assediata e terrorizzata. E' brutto dirlo, ma visto che siamo tutti
noi coinvolti, che in un modo o un altro ci identifichiamo con una parte o
l'altra, stiamo anche lasciando che la guerra diventi la causa di ancora più
guerra, il terrore la causa di ancora più terrore, ma questa volta nei
nostri cuori.

Una cosa affascinante, bella e affascinante, è che ci sono modi per guarire
il trauma e il terrore. Il modo più urgente è di cercare di non aggravare la
situazione, di non incitare il ciclo di violenza. E' difficile, lo so
benissimo, tacere quando siamo presi dalla rabbia, scegliere di non girare
quella mail che colpevolizza, di ascoltare il dolore di uno con cui
identifichiamoci senza disumanizzare il suo avversario.

E' difficile ma è possibile. E una cosa affascinante, bella e affascinante,
è che già tacere e non incitare, dare un attimo di silenzio, aiuta sia la
nostra parte che noi. Anche se è solo per un attimo, l'assenza di tensione,
di incitamento e di paura può essere un grande dono. Loro ne hanno tanto
bisogno e spesso anche noi.

Più affascinante ancora, banale, bella e affascinante, è che se la causa
della guerra è la guerra e la causa dell'odio è l'odio, la causa della pace
è la pace e la causa dell'amore è l'amore. Se vogliamo che ci sia la pace
nel Medio Oriente dobbiamo essere bravi nel portarla anche a Roma, Napoli o
Milano. Una parte della pace è la capacità di vedere le cose belle della
vita che altrimenti sono scontate. Va bene lamentarci su Berlusconi, sia noi
di destra che noi di sinistra, ma prendiamo anche un attimo a sentire
gratitudine per le belle cose del Bel Paese. La musica, l'architettura, le
tradizioni e le innovazioni, il tempo, la mancanza di guerre e di bombe, il
baciare due volte - sopratutto il baciare due volte, la frase "ciao bello"
che ci mette subito di buon umore. Più saremo bravi a vedere il bello più
saremo capaci a trasmetterlo ai nostri amici in Israele e in Palestina. Più
potranno vedere il bello - anche se in condizioni difficili - meno
sentiranno l'ansia, la rabbia e la paura, e meno faranno azioni che poi gli
porteranno maggior sofferenza.

Ho menzionato anche l'amore. Come mai nelle analisi politiche si può
scrivere dell'odio ma non dell'amore? E' affascinante, bello e affascinante,
che quest'emozione raramente menzionata può essere così utile. L'amore, la
comprensione e la compassione: certo che non ne leggiamo in riguardo al
Medio Oriente perché c'è ne poco. Se vogliamo che ci sia l'amore in Israele
e in Palestina dobbiamo rafforzare la sua causa, anch'essa l'amore.

Non ci conviene provare a sentire subito l'amore per il nostro nemico,
sarebbe come correre una maratona senza addestrarci. Cominciamo con i nostri
amici, parenti, vicini, poi gli sconosciuti, poi i "piccoli nemici" a
lavoro, a volta anche in famiglia. Con la pratica e l'addestramento è
possibile. Certo che ci vuole tanta pazienza: Ehud Barak ha preparato per
sei mesi per l'attacco su Gaza. Possiamo noi investire sei mesi nel
migliorare i nostri rapporti personali e rafforzare il nostro amore? Se no,
dimentichiamo ogni speranza che gli israeliani e i palestinesi ce la fanno.
Se sì, loro sentiranno gli effetti.

E' possibile. E la cosa più affascinante, la cosa più buffa, bella, felice e
affascinante, è che il non aggravare la situazione, il rafforzare la pace e
lo sviluppare l'amore verso l'altro ci migliorano la qualità della nostra
vita qui e oggi, e allo stesso momento sarà la causa del tacere, della pace
e dell'amore nel Medio Oriente nel futuro prossimo.

Mo taccio, sento gratitudine perché non mi sta cadendo nessun razzo e
nessuna bomba, e voglio bene a tutti voi.

Dal blog di Bar:

http://barz-blog.blogspot.com <http://barz-blog.blogspot.com/> <http://barz-blog.blogspot.com/>

http://barz-blog.blogspot.com/2009/01/la-causa-della-guerra.html

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Regole di grammatica

Riprendo a pubblicare con il pregevole pezzo di Franco Cordero che segue.
Enjoy!
gufo

LA GRAMMATICA VIOLATA

Benedetto Croce, coltissimo e ricco signore con largo ascendente nella cultura novecentesca, aveva manifestato qualche vaga simpatia al fascismo emergente, castigatore delle mattane sovversive, ma cambia avviso vedendo come il castigamatti s' impadronisca dello Stato, in barba all' etica liberale. Da allora impersona un implicito dissenso, rispettato dagli occupanti perché ogni soperchieria sul papa dell' idealismo italiano guasterebbe l' immagine fascista; Mussolini non è Hitler. I numeri bimestrali della «Critica» hanno devoti lettori, bollettino d' una sommessa opposizione. Privatamente circolano battute spiritose. Sentiamone una, cosa sia il regime mussoliniano: un governo degli asini «temperato dalla corruzione». Era formidabile conversatore, spesso feroce, ad esempio nell' arrotare un ex pupillo rumoroso e rampante diagnosticandogli «priapismo dell' Io». Varrà la pena spiegare in qual senso sia peggiore l' attuale governo onagrocratico (dal latino «onager», asino selvatico). Qui notiamo come la natura asinina sfolgori nel protocollo d' intesa 26 novembre 2008: i partner sono due ministri; lo scassasigilli era segretario particolare del sire d' Arcore, padrone d' Italia nei prossimi 12 o 17 anni se gli spiriti animali gli durano; l' altro, ministro innovatore dalle frequenti epifanie, ha appena annunciato che domerà gli statali col bastone e la carota. I due s' intendono sul seguente disegno: allestire una memoria informatica universale dove confluiscano tutti gli atti compiuti dalla polizia giudiziaria (il grosso delle indagini preliminari); e la covi il ministro, eventualmente mediante appalti esterni (in lessico tecnicoide outsourcing); why not? (logo d' un allegro affarismo), l' affidi a imprenditori della galassia Mediaset, visti i luminosi precedenti Telecom. Il lettore domanda perché definiamo asinina un' idea sinistra (tra Gestapo e Millenovecentottantaquattro, l' incubo narrato da George Orwell): l' asino è animale mite; vero, ma ignorante e luoghi comuni probabilmente falsi lo dicono poco intelligente. Qui sta l' aspetto onagrocratico, e tutto sommato benefico, svela piani che menti più sottili dissimulano. Sappiamo dove miri Re Lanterna, tre volte vittorioso nella fiera elettorale grazie all' ordigno televisivo che consorterie tarate gli hanno venduto: pretende nello Stato un dominio quale esercitava nell' impero privato (e presumibilmente lo esercita, essendo piuttosto anomala la metamorfosi dei vecchi pirati in asceti); i limiti normativi gli ripugnano; caudatari in divisa o pseudoneutrali chiamano «decisioni» gesti padronali nemmeno pensabili in chiave politica. Gli sta a pennello la definizione crociana (priapismo dell' Io), con una terribile differenza in peius: quel letterato era persona d' intelletto fine, narciso inoffensivo, acuto patologo del fascismo; lui no, ha plagiato parte d' Italia e vuol comandarla tutta, attraverso l' abbassamento dei livelli mentali. Appena rimesso piede al governo, s' è proclamato immune dai processi penali, quindi invulnerabile su ogni episodio passato o futuro, qualunque sia il nomen delicti; i suoi piani escludono futuri rendiconti elettorali pericolosi, ma l' organismo collettivo ha ancora difese immunitarie (Carta, leggi, codici, tribunali, magistratura); e volendole disarmare, blatera d' una giustizia da riformare, l' ultima cosa della quale occuparsi mentre il paese va in malora, affogato nella crisi planetaria, e lui s' ingrassa. Aborre l' azione penale obbligatoria e il pubblico ministero indipendente: lo vuole diretto dal governo; il che significherebbe impunità pro se et suis, con duri colpi all' avversario molesto. Tale l' obiettivo ma l' idea è cruda: gliela contestano anche degli alleati; e i negromanti indicano una via indiretta, meno vistosa, lasciare intatto l' ufficio requirente, affidando le indagini alla polizia, diretta dal potere esecutivo. Quante volte l' ha detto: diventerà avvocato dell' accusa, ridotto alla performance verbale o grafica; cervelli polizieschi investigano e la relativa mano raccoglie le prove (sotto l' occhio governativo). A quel punto sarà innocua la bestia nera. Il tutto sine strepitu: due o tre ritocchi appena visibili; se vi osta l' art. 109 Cost. («l' autorità giudiziaria dispone direttamente» dell' omonima polizia), basta toglierselo dai piedi; l' art. 138 ammette delle revisioni; nelle due Camere se la combina quando vuole, avendo i numeri; e poco male fosse richiesto un referendum confermativo. Nessuno gli resiste nelle tempeste mediatiche. Con tre reti televisive vola sulla luna. Riconsideriamo l' aspetto asinino. Il protocollo 26 novembre 2008 grida quel che Talleyrand e Fouché, molto più fini, terrebbero sub rosa, e lo fa in termini grossolani, ignari dell' elementare grammatica legale. Non è materia disponibile mediante circolari o intese ministeriali. La regolano norme codificate: la documentazione degli atti d' indagine avviene in date forme (art. 373); e sono coperti dal segreto finché «l' imputato non ne possa avere conoscenza» (art. 329); e la polizia deve spogliarsi dei verbali, reperti, notitiae criminis, trasmettendoli al pubblico ministero (art. 357). Secondo le attuali regole, i due confabulanti esigono dei delitti dalla polizia (artt. 326, 379-bis, 621 c. p.). E chi escogita questo serbatoio penale, violabile dagli hackers ma comodo in mano al ministro e servizi segreti? I campioni della privacy, furenti quando, straparlando al telefono, finiscono nella memoria acustica corruttori, corrotti, concussori, pirati societari e simili faune. - FRANCO CORDERO

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