martedì, settembre 30, 2008

 

quanto durerà il regno berlusconi

Scalfari riesce a informare in modo documentato e argomentato. Risponde mirabilmente a Bondi e dichiara di "non impedirsi di comprendere il diverso da me né di sognare e operare per una società dove i diritti e i doveri siano eguali per tutti e non ci sia solo tolleranza ma amore." Sogni da condividere. Grazie.

I PILOTI hanno firmato il contratto da dirigenti, gli assistenti di volo firmeranno da lunedì; gli uni e gli altri hanno ottenuto miglioramenti rispetto alle condizioni iniziali e hanno ceduto su alcuni privilegi che contrastavano con il buon senso e con la natura ormai interamente privata della nuova compagnia di volo. Che peraltro di volo ancora non è, tanto che non può ancora intestarsi gli «slot», le licenze necessarie per far decollare gli aeroplani. La vicenda tempestosa e ardua dell' Alitalia è dunque arrivata al suo positivo esito finale? Positivo forse sì, finale non direi. Ci saranno, per Colaninno, per Fantozzi e per il governo ancora parecchie gatte da pelare e non sarà un quieto vivere. Bisognerà anzitutto superare il giudizio della Commissione di Bruxelles sulla legittimità del contratto d' acquisto della polpa di Alitalia che dovrà essere stipulato entro il 30 ottobre tra la Cai di Colaninno e la vecchia Alitalia di Fantozzi. Secondo le norme europee la scelta iniziale avrebbe dovuto esser fatta mettendo in pubblica gara i possibili acquirenti interessati, ma questa gara non c' è stata; il governo aveva l' idea fissa dell' italianità ed è andato dritto su quella strada, ma ora, prima che il contratto Colaninno-Fantozzi sia stipulato, l' Unione europea potrebbe eccepire e addirittura dichiarare nulla la procedura seguita. Sarebbe una vera catastrofe, non tanto per il Paese ma certamente per il governo; perciò non credo che la Commissione di Barroso e di Almunia si prenderà una simile responsabilità, ma il rischio in teoria esiste. C' è tuttavia un secondo ostacolo: il prestito dei 300 milioni effettuato con due decreti rispettivamente dal governo Prodi già dimissionario e dal subentrante governo Berlusconi. Quel prestito deve essere rimborsato da Alitalia al Tesoro.Chi lo deve rimborsare? Fantozzi o Colaninno? La "bad company" di Fantozzi è per il 49 per cento del Tesoro e in più è in liquidazione. Colaninno però quel prestito non l' ha ricevuto perché all' epoca la sua cordata ancora non esisteva. Dunque è discutibile individuare il debitore. Ma esistono dei beni materiali. Per esempio gli aerei e gli "slot". Potrebbero essere sequestrati dal creditore Tesoro e rivenduti fino a realizzare i 300 milioni. Oppure, anche qui, Bruxelles potrebbe chiudere un occhio visto il buon esito della vicenda. Infine c' è il problema dell' antitrust. Se e quando nel capitale di Cai entrerà un' impresa straniera il controllo dell' antitrust passerà dall' Autorità italiana a quella europea, rispetto alla quale non vale il decreto Tremonti che ha sospeso i controlli dell' antitrust sull' operato di Cai. Infine c' è appunto il tema del socio straniero e della quota azionaria da riservargli. Berlusconi vorrebbe che l' arrivo dello straniero avvenisse il più tardi possibile per sfruttare a lungo la rinascita della Compagnia tricolore e desidererebbe che la quota non superasse il 15 per cento del capitale, ma su questo tema la scelta spetta soltanto alla Cai. Si sa che Colaninno preferirebbe Lufthansa che però vorrebbe una quota azionaria maggiore. Si vedrà, ma questa comunque non è una questione che possa mettere a rischio l' operazione, semmai la rafforza in proporzione diretta alla maggiore o minore presenza straniera. Gran parte di queste gatte da pelare Padoa-Schioppa, ai suoi tempi, le aveva evitate: la gara internazionale ci fu, la proposta di Air France non prevedeva che lo Stato si accollasse i debiti, non c' era dunque bisogno di alcun prestito se si fosse firmato quell' accordo. Eppure ancora oggi Tremonti svillaneggia il suo predecessore perché secondo lui condusse malissimo quel negoziato il cui fallimento - è bene ripeterlo - fu dovuto all' azione congiunta del personale di volo e di Berlusconi. Questo è quanto e questo rimarrà agli atti. * * * Tuttavia la luna di miele tra il Cavaliere e una robusta maggioranza di italiani continua. Anzi si rafforza. Nonostante le ristrettezze economiche, nonostante alcuni buchi non da poco nella politica finanziaria del governo, nonostante un bel po' di misure oggettivamente sbagliate, nonostante il disagio crescente di vaste categorie sociali e professionali, la luna di miele perdura. Si consolida. Diventa strutturale o almeno così sembra. Come mai? Alcuni osservatori si sono posti il problema e hanno dato le loro risposte. In particolare su questo giornale che per sua natura e per la qualità dei suoi lettori è il più sensibile a queste questioni e forse il meglio attrezzato per affrontarle. Il ministro della Cultura, Sandro Bondi, in una lettera pubblicata ieri su Repubblica ci rimprovera perché secondo lui noi non abbiamo capito il fenomeno Berlusconi. Lo attribuiamo - erroneamente - alle sue capacità di demagogo, al suo dominio televisivo e/o alla dabbenaggine di tanti italiani che ripongono in lui la loro fiducia. «Non avete capito niente» incalza Bondi. «Berlusconi avrà pure i difetti che voi gli avete cucito addosso, gli italiani saranno pure un popolo di allocchi al seguito di un pifferaio, ma la sua vera natura è di essere un modernizzatore e un semplificatore. Conserva le tradizioni ma le modernizza. Decide. Fa girare le ruote della storia. Insomma è uno statista. Se la sinistra non si rende conto di questo e non depone i suoi pregiudizi elitari, scomparir- EUGENIO SCALFARIà». Così a un dipresso il nostro ministro della Cultura, che è assolutamente convinto di quanto ci scrive. Non si stupisca Bondi se, dal canto mio, dico che c' è del vero nella sua visione berlusconista: un modernizzatore che conserva le tradizioni, trasforma l' antropologia sociale e riforma lo Stato. Non un fenomeno effimero ma durevole. Ce n' è stato più d' uno nella storia dell' Italia moderna. Alcuni di grande livello, altri di mediocre spessore, altri ancora pessimi. Cavour, Giolitti, De Gasperi appartengono alla prima categoria; Bettino Craxi alla seconda. Alla terza - quella dei pessimi - Benito Mussolini. Dove collochiamo l' attuale "premier"? Bisognerebbe lasciare il giudizio agli storici che rivisiteranno il passato a qualche decennio di distanza, ma anche noi contemporanei abbiamo il diritto di esprimerci. Secondo me Berlusconi va collocato a buon titolo tra i pessimi. La sua modernizzazione procede a ritroso, non è una riform- EUGENIO SCALFARIa ma una controriforma. Il suo rispetto delle tradizioni riguarda la loro ritualità e non la loro viva sostanza. Basti guardare al suo rapporto con la Chiesa, che è addirittura blasfemo: non riguarda il cristianesimo ma gli interessi della gerarchia. La stessa cosa avviene quando affronta temi di fondo: la sicurezza, l' immigrazione, la giustizia, la scuola, l' economia, il federalismo, la Costituzione. Nei primi anni del Novecento Sidney Sonnino lanciò lo slogan «torniamo allo Statuto» (quello promulgato mezzo secolo prima dal re di Sardegna Carlo Alberto). Credo che anche a Berlusconi piacerebbe tornare allo Statuto albertino mettendo se stesso al posto del re. Tutto il resto va di conseguenza. Gli italiani sono un popolo di allocchi? Non più e non meno di tutti i popoli del mondo. Guardate alla campagna elettorale in corso negli Stati Uniti. Guardate a quella francese di un anno fa: può decidere una battuta, una foggia, un gossip, una promessa lanciata al momento giusto. Il dominio dei "media" non conta? Non si capisce, se non contasse, perché chi quel dominio ce l' ha non se ne sbarazza nemmeno per tutto l' oro del mondo. Gli individui di qualunque latitudine pensano innanzitutto alla propria felicità e si arrangiano per realizzarla. Poi, se hanno tempo e spazio, considerano anche la felicità del loro popolo, il bene comune. «Quando il popolo si desta / Dio si mette alla sua testa / la sua folgore gli dà»: così cantavano i poeti del nostro Risorgimento. Ma bisogna che il popolo si desti, cioè che gli individui divengano un popolo. Il che avviene molto di rado. * * * Immanuel Kant scrisse nella sua Critica della ragion pura che il peggior pregiudizio è non avere pregiudizi. Lo ricorda Todorov nel suo saggio sull' illuminismo. Sembra un paradosso ma coglie invece un aspetto importante della realtà perché il pre-giudizio è un' ipotesi di lavoro che serve ad orientare la ricerca di una soluzione. Chi non ha un' ipotesi di lavoro procede alla cieca, agisce e decide sulla base dell' emotività propria e di quella della folla. Dei sondaggi. Delle reazioni degli alleati e degli avversari. Il modernizzatore-tradizionalista-controriformista non ha alcun pre-giudizio. La sua bussola sono i sondaggi e il favore della folla. La folla è la somma degli individui, non è un popolo. La folla è cera molle nelle mani di chi sappia manipolarla. Si tratta di un' arte, non di una scienza e in quell' arte il Nostro è maestro. Perciò è il massimo fautore d' una società "liquida", dove i nuclei associativi, i contropoteri, la pluralità organizzata siano ridotti al minimo. * * * La società liquida è un tipico aspetto della modernità a patto che i contropoteri e le istituzioni di garanzia siano in grado di tutelare l' eguaglianza di tutti i cittadini, la libertà di accesso, l' esercizio dei diritti. Se questi presupposti mancano o sono deboli la società liquida non è un aspetto della modernità ma un ritorno all' antico, dal popolo alla plebe. Inoltre favorisce il rafforzamento di corporazioni e di mafie. La globalizzazione porta con sé società liquide, professionalità ondivaghe e precarie, diritti incerti, mercati senza regole, contropoteri evanescenti. Le crisi assumono ampiezze e intensità mai viste prima, come avviene per gli uragani che sconvolgono i mari e le terre di pianura senza montagne che frenino il furore del vento. Di fronte a crisi globali lo Stato si ripropone come l' assicuratore di ultima istanza. Riassume i pieni poteri. Non tollera controlli. Semplifica. Spazza via gli ostacoli. Confisca i diritti che possono frenarlo. In una società globale e liquida il potere si identifica con i governi nazionali. Il nazionalismo torna ad essere preminente nelle scale valoriali. I fondi sovrani diventano strumento di potenza e volontà di potenza. Guardatevi intorno e vedrete che questa è la realtà che ci circonda. E per tornare ai casi nostri, di noi italiani, importa poco stabilire se il "format" berlusconiano sia una causa o un effetto, se sia duraturo o precario. Quel "format" c' è ed è all' opera da quindici anni. Non accenna a indebolirsi. Dobbiamo unirci a chi lo applaude? Dobbiamo scegliere l' indifferenza e l' estraneità? Dobbiamo capirne la natura e resistergli? Il mio pre-giudizio è di resistergli avendone capito la natura. Sono molto affezionato ad un pre-giudizio che non mi impedisce di comprendere il diverso da me né di sognare e operare per una società dove i diritti e i doveri siano eguali per tutti e non ci sia solo tolleranza ma amore. In un mondo democraticamente ideale la tolleranza è offensiva rispetto all' amore e la tolleranza zero è una turpe bestemmia. Lo dicono anche i preti e questa volta sono d' accordo con loro.

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non si vive di solo format, dice il Ministro Bondi

la risposta del Ministro, non si vive di solo format, è sorprendente. La sua prosa simpatica e suadente è proprio un esempio, a mio avviso, di una semplificazione "da format propagandistico". Certo è possibile sostenere che il nostro paese sta vivendo i momenti più alti del liberismo e che il Ministro Tremonti ha previsto visto e trovato la soluzione alla grande crisi del capitalismo internazionale. Come sostenere di essere Napoleone. Più difficile sarebbe dimostrarlo, ma ho idea che il Ministro preferisca enunciare e magnificare piuttosto che spiegare e documentare. Così è più facile, se il format funziona, avere successo. Fortunatamente lui stesso dice: non si vive di solo format... speriamo!

Caro direttore, la riflessione aperta da Edmondo Berselli, sulle ragioni del successo di Silvio Berlusconi e del suo governo, rischia di essere fuorviante culturalmente e perciò improduttiva politicamente, almeno per chi intenda utilizzarne i risultati sul piano dell'azione politica. Il limite di fondo di questa analisi - un costante ritorno nel corso di questi anni - consiste nell' attribuire il successo di Berlusconi volta per volta all' astuzia del leader del Popolo della Libertà, ai suoi enormi mezzi finanziari compreso il controllo delle televisioni, alla semplificazione del suo messaggio politico, fondato sull' appello agli istinti piuttosto che alla razionalità e complessità del pensiero politico, fino alla considerazione dell' immaturità del popolo italiano, in linea con una pessimistica lettura della storia italiana, che mi sembra il tratto più tipico e profondo dell' analisi del fondatore del Suo giornale. Questa analisi non ha portato fortuna, essenzialmente perché essa era ed è fondata su premesse sbagliate. Il cosiddetto "berlusconismo", infatti, è stato innanzitutto la risposta alla crisi del sistema politico italiano, che ha coinciso con la caduta del muro di Berlino e con Tangentopoli, e la presa d' atto dell' incapacità/impossibilità del Partito comunista italiano di trasformarsi in una autentica forza politica riformista di stampo europeo. In secondo luogo, il "berlusconismo" ha rappresentato e continua a rappresentare il tentativo più alto di modernizzazione delle strutture economiche e istituzionali del nostro Paese, sulla base non di una ideologia, ma di un sistema di valori autenticamente liberali e riformatori, che hanno influenzato oltretutto l' intera politica europea. Il caso di Giulio Tremonti è emblematico di una cultura politica che fra le ragioni del suo successo non annovera certamente la semplificazione, bensì un' alta dose di complessità, visto che ha saputo decifrare, prevedere e fornire soluzioni ad una crisi del sistema capitalistico internazionale, nel silenzio e nell' apatia assoluta della cultura di sinistra. Un' altra premessa errata delle riflessioni a cui ho fatto riferimento riguarda la questione delle radici antropologiche del consenso che premierebbe il format politico di Silvio Berlusconi, come scrive Marino Niola. Beninteso, non sottovaluto affatto i rischi a cui è esposta la democrazia quando la politica fa appello agli istinti più irrazionali piuttosto che al ragionamento e al giudizio libero e informato dei cittadini. Ciò che non condivido, invece, è l' accusa rivolta alle forze politiche di governo di una politica ridotta a format, la cui parola d' ordine è la semplificazione: dalla scuola alla sicurezza, dalla pubblica amministrazione all' immigrazione. Addirittura Michele Serra ne trae la conseguenza che la posta in gioco è il destino della cultura. La mia convinzione, al contrario, è che il successo dell' attuale governo derivi proprio da una cultura non imprigionata da schemi ideologici e perciò capace di guardare e di leggere la realtà, oltre ché di interpretare correttamente gli interessi e le speranze dei cittadini. Di contro, la crisi dell' opposizione, della sinistra, nasce innanzitutto dall' incapacità di comprendere la realtà. Ripulire Napoli dai rifiuti, salvare la nostra compagnia di bandiera, assicurare la sicurezza dei cittadini, regolare l' immigrazione, ridurre la spesa pubblica e gli sprechi, premiare il merito nella pubblica amministrazione, tornare al rigore negli studi, non è un format fondato sulla semplificazione. è semplicemente una politica del fare, che risponde alle esigenze e alle preoccupazioni della stragrande maggioranza dei cittadini: di destra e di sinistra. Quando lo capiranno non soltanto gli intellettuali o i brillanti editorialisti di Repubblica, ma soprattutto gli esponenti politici della sinistra, avremo sbarazzato il terreno da pericolosi equivoci e facili illusioni, e fatto un passo avanti sul terreno del confronto utile.

giovedì, settembre 25, 2008

 

La seduzione al potere

Da Niola un altro ottimo contributo al tema sollevato da Berselli
E se la democrazia contemporanea fosse un' inedita combinazione di seduzione e politica, di potere e corpo? Ingredienti antichi che la civiltà dell' immagine spara all' ennesima potenza? Potrebbe essere un' ulteriore risposta alla domanda posta, su questo giornale, da Edmondo Berselli sulle radici antropologiche del consenso che premia il format politico di Silvio Berlusconi. n realtà, proprio perché ridotta a format, l' offerta politica contemporanea fa riaffiorare arcaismi, simbolismi, mitologie che appartengono agli strati più remoti della rappresentazione del potere. Quelli che chiamano in causa le sue forme elementari: dall' aspetto fisico alla forza alla bellezza. Ovviamente tradotte e amplificate dalla potenza della comunicazione che trasforma i corpi in carne e ossa in figure immateriali, in icone mediatiche, in multipli elettronici ad altissima definizione. Il berlusconismo incarna appieno questo modello di azione e di comunicazione politiche fatto di continui lanci che usano un advertising estremamente complesso per produrre messaggi estremamente semplici. O meglio semplificati. E proprio per questo ancor più seducenti. Proprio come quegli spot pubblicitari che persuadono con la bellezza delle immagini e con il richiamo quasi archetipico di certi simboli, forme, colori. Facendo quasi dimenticare le caratteristiche del prodotto, spostando l' attenzione dagli oggetti ai soggetti della comunicazione, dalla commedia agli attori. Non è un caso che la strategia politica del Cavaliere sia sempre stata centrata sulla capacità di piacere, di affabulare, di attrarre, di fare simpatia. E soprattutto sull' esibizione del corpo come strumento di persuasione: il suo corpo e quello degli altri. Dai figli ai nipotini, dagli atleti alle bellezze della galassia televisiva che hanno contribuito a costruire il suo profilo di leader. Che diventano manifestazioni di un unico potere capace di assumere i volti e le sembianze più diversi. Così le sue creature politiche sono in realtà i volti giovani e belli di un' immagine che si rigenera. Un lifting simbolico che ha nell' appeal l' arma principale della sua persuasione. Lo strumento di una seduzione a trecentosessanta gradi, che fa del desiderio il vero basic istinct della politica, il primo motore degli interessi e delle passioni. Così l' istanza estetica prende surrettiziamente il posto di quella etica. Mentre le immagini e le parole prevalgono sui fatti. È l' apoteosi della seduzione nel senso vero della parola latina seducere. Che non significa tanto e solo attrarre quanto distrarre, sviare, far pensare ad altro. Con l' effetto di mobilitare continuamente il corpo sociale in ogni sua parte, con una effervescente sovraesposizione del fare, impegnando l' attenzione su temi di sicuro impatto scelti ad arte. Sfondando porte già aperte in un senso comune che non aspetta che di veder confermate le sue ansie, i suoi timori, le sue aspettative, le sue ricette abbreviate. La fine della prostituzione per le strade, il ritorno alla maestra unica, la lotta ai fannulloni. Ipotesi di avvenire costruite con rassicuranti frammenti di passato, che ci consola nell' illusione nostalgica del tempo ritrovato. Temi che creano unanimità, o meglio unanimismo, che è poi la forma di condivisione tipica del nostro individualismo di massa. In cui il sentire comune non si forma più nel confronto con gli altri ma conformandosi al format. Facendosi a sua immagine e somiglianza. Proprio perché siamo più soli, e dunque più insicuri, chiediamo alla politica di semplificarci la vita sostituendo alla complessità labirintica di una realtà sfuggente, che non sappiamo da che parte impugnare, dei modelli ridotti e dei simboli elementari. E cosa c' è di più elementare, dal punto di vista simbolico, del corpo e dell' apparenza? Non è un caso, allora, che la politica d' immagine contemporanea riporti il corpo al centro della rappresentazione del potere. Naturalmente non stiamo parlando del corpo fisico, né del corpo singolo, ma di un corpo iconico e proteiforme che si moltiplica grazie ai suoi multipli e ai suoi doppi che ne amplificano l' immagine e ne prolungano l' eco adattandola alle diverse domande, alle attese particolari. Un' offerta profilata per una domanda personalizzata. Risultato una seduzione consensuale. È questa la condizione ottimale per la vendita del prodotto-politica che oggi premia un marketing del consenso capace di coniugare gli aspetti più arcaici, quasi etologici, del potere con le più avvertite tecnologie del consenso, con le più sofisticate strategie d' immagine. È quasi naturale che donne giovani e belle diventino ministre, e che il potere sia circondato da uno scintillio glamour che fa da specchio al narcisismo di massa e indora le pillole che ci tocca inghiottire. Non è una semplice velinizzazione della politica, né tantomeno il risultato di uno scambio di favori. Ma qualcosa di molto più profondo, nella sua superficialità. Perché la giovinezza e la bellezza sono due password del presente e al tempo stesso sono da sempre il nucleo sorgivo della rappresentazione del potere che, come insegna Hobbes, nasce nel corpo e dal corpo. Secondo il fondatore del pensiero politico moderno i cosiddetti poteri naturali, come la forza, la bellezza, la seduzione, la capacità di persuasione sono la cellula primigenia della politica. Che non è altro che la trasformazione di qualità, misure e proporzioni fisiche in qualità, misure e proporzioni sociali: in entrambi i casi è questione di costituzioni. Questa semplificazione mediatica della politica - una sorta di naturalizzazione simbolica - non può che servirsi di modelli di azione e di spiegazione altrettanto riduttivi. E proprio per questo efficaci, sul piano della comunicazione prima ancora che su quello della soluzione dei problemi, ancora tutto da verificare. Nietzsche diceva che per conquistare il consenso delle moltitudini un capo deve ridurre il ruolo della politica a una recita grossolana e semplicistica. Almeno in apparenza. E proprio in questa apparenza sta, per il momento, la forza del Cavaliere.

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Il mondo facile della politica format

Ancora sul tema sollevato da Berselli, ecco un pezzo di Serra che merita attenzione
La campagna per il ritorno alla maestra unica, al di là dei propositi contingenti di "risparmio", aiuta a riflettere in maniera esemplare sulle ragioni profonde delle fortune politiche della destra di governo, e sulle sue altrettanto profonde intenzioni strategiche. Sono intenzioni di semplificazione. Se la parola-totem della sinistra, da molti anni a questa parte, è "complessità", a costo di far discendere da complesse analisi e complessi ragionamenti sbocchi politici oscuri e paralizzanti, comunque poco intelligibili dall' uomo della strada, quella della destra (vincente) è semplicità. La pedagogia e la didattica, così come sono andate evolvendosi nell' ultimo mezzo secolo, sono avvertite come discipline "di sinistra" non tanto e non solo per il tentativo di sostituire alla semplificazione autoritaria orientamenti più aperti, e a rischio di permissivismo "sessantottesco". Sono considerate di sinistra perché complicano l' atteggiamento educativo, aggiungono scrupoli culturali ed esitazioni psicologiche, si avvitano attorno alla collosa (e odiatissima) materia della correttezza politica, esprimono un' idea di società iper-garantita e per ciò stesso di ardua gestione, e in buona sostanza attentano al desiderio di tranquillità e di certezze di un corpo sociale disorientato e ansioso, pronto ad applaudire con convinzione qualunque demiurgo, anche settoriale, armato di scure. In questo senso la proposta Gelmini è quasi geniale. L' idea-forza, quella che arriva a una pubblica opinione sempre più tentata da modi bruschi, però semplificatori, è che gli arzigogoli "pedagogici", per giunta zavorrati da pretese sindacali, siano un lusso che la società non può più permettersi. Il vero "taglio", a ben vedere, non è quello di un personale docente comunque candidato - una volta liquidati i piloti, o i fannulloni, i sindacalisti o altri - al ruolo di ennesimo capro espiatorio. Il vero taglio è quello, gordiano, del nodo culturale. La nostalgia (molto diffusa) della maestra unica è la nostalgia di un' età dell' oro (irreale, ma seducente) nella quale la nefasta "complessità" non era ancora stata sdoganata da intellettuali, pedagogisti, psicologi, preti inquieti, agitatori politici e cercatori a vario titolo del pelo nell' uovo. Una società nella quale il principio autoritario era molto aiutato da una percezione dell' ordine di facile applicazione, nella quale il somaro era il somaro, l' operaio l' operaio e il dottore dottore. Una società che non prevedeva don Milani, non Mario Lodi, non Basaglia, ovviamente non il Sessantotto, e dunque, nella ricostruzione molto ideologica che se ne fa oggi a destra, è semplicemente caduta vittima di un agguato "comunista". In questo schemino, semplice ed efficace, la cultura e la politica, a qualunque titolo, non sono visti come interpreti dei conflitti, ma come provocatori degli stessi. Se la pedagogia "permissiva" esiste, non è perché il disagio di parecchi bambini o la legnosità e l' inadeguatezza delle vecchia didattica richiedevano (già quarant' anni fa) di essere individuati e affrontati, ma perché quello stesso problema è stato "creato" da un ceto intellettuale e politico malevolmente orientato alla distruzione della buona vecchia scuola di una volta. Insomma, se la politica è diventata un format, come ha scritto Edmondo Berselli, la sua parola d' ordine è semplificazione. Per questa destra popolare, e per il vasto e agguerrito blocco sociale che esprime, la complicazione è un vizio "borghese" (da professori, da intellettualoidi, beninteso da radical-chic, e poco conta che il personale scolastico sia tra i più proletarizzati d' Italia) che non possiamo più permetterci, e al quale abbiamo fatto malissimo a cedere. Non solo la pedagogia, anche la psicologia, la sociologia, la psichiatria, nella vulgata oggi egemone, non rappresentano più uno strumento di analisi della realtà, quanto la volontà di disturbo di manipolatori, di rematori contro, di attizzatori di fuochi sociali che una bella secchiata d' acqua, come quella della maestra unica, può finalmente spegnere. La lettura quotidiana della stampa di destra - specialmente Libero, da questo punto di vista paradigma assoluto dell' opinione pubblica filo-governativa - dimostra che il trionfo del pensiero sbrigativo, per meglio affermarsi, necessita di un disprezzo uguale e contrario per il pensiero complicato, per la massa indistinta di filosofemi e sociologismi dei quali i nuovi italiani "liberi" si considerano vittime non più disponibili, per il latinorum castale di politici e intellettuali libreschi, barbogi, causidici, che usano la cultura (e il ricatto della complessità) come un sonnifero per tenere a freno le fresche energie "popolari" di chi ne ha le scatole piene dei dubbi, delle esitazioni, della lagna sociale sugli immigrati e gli zingari, sui bambini in difficoltà, su chiunque attardi e appesantisca il quotidiano disbrigo delle dure faccende quotidiane. Già troppo dure, in sé, per potersi permettere le "menate" della sinistra sull' accoglienza o il tempo pieno o i diritti dei gay o altre fesserie. La sinistra ha molto di che riflettere: la formazione culturale e perfino esistenziale del suo personale umano (elettorato compreso) è avvenuta nel culto quasi sacrale della complessità del mondo e della società, con la cultura eletta a strumento insostituibile di comprensione anche a rischio di complicare la complicazione... Ma non c' è dubbio che tra il rispetto della complessità e il narcisismo dello smarrimento, il passo è così breve che è stato ampiamente fatto: nessuna legge obbliga un intellettuale o un politico a innamorarsi dell' analisi al punto di non rischiare mai una sintesi, né la semplificazione - in sé - è una bestemmia (al contrario: proprio da chi ha molto studiato e molto riflettuto, ci si aspetterebbe a volte una conclusione che sia "facile" non perché rozza o superficiale, ma perché intelligente e comprensibile). Ma la posta in gioco è molto più importante del solo destino della sinistra. La posta in gioco - semplificando, appunto - è il destino della cultura, degli strumenti critici che rischiano di diventare insopportabili impicci. Se questa destra continuerà a vincere, a parte il marketing non si vede quale delle discipline sociali possa sperare di riacquistare prestigio, e una diffusione non solo castale o accademica. Perché è molto, molto più facile pensare che l' umanità e la Terra siano stati creati da Dio settemila anni fa (cosa della quale è convinta ad esempio la popolarissima Sarah Palin) piuttosto che perdere tempo e quattrini studiando i fossili e l' evoluzione. È molto più rassicurante, convincente, consolante pensare che le buone maestre di una volta, con l' ausilio del cinque in condotta e di una mitraglia di bocciature, possano mantenere l' ordine e "educare" meglio i bambini ipercinetici, e consumatori bulimici, che la televisione crea e che la propaganda di destra ora lascia intendere di poter distruggere, perché è meglio avere consumatori docili (clienti, come dice Pennac) piuttosto che cittadini irrequieti. È meglio avere certezze che problemi. È molto più semplice pensare che il mondo sia semplice, non fosse che per una circostanza incresciosa per tutti: che non lo è. Il mondo è complicato, l' umanità pure, i bambini non parliamone neanche. Se le persone convinte di questo obbligatorio, salutare riconoscimento della complicazione non trovano la maniera di renderla "popolare", di spiegarla meglio, di proporne una credibile possibilità di governo, di discernimento dei principi, dei diritti, dei bisogni fondamentali, diciamo pure della democrazia, vedremo nei prossimi decenni il progressivo trionfo dei semplificatori insofferenti, dei Brunetta, delle Gelmini, delle Palin. Poi la realtà, come è ovvio, presenterà i suoi conti, sprofondando i semplificatori nella stessa melma in cui oggi si dibattono i poveri complicatori di minoranza. Nel frattempo, però, bisognerebbe darsi da fare, per sopravvivere con qualche dignità nell' Era della Semplificazione, limitandone il più possibile i danni, se non per noi per i nostri figli che rischiano di credere davvero, alla lunga, al mito reazionario dei bei tempi andati, quando la scuola sfornava Bravi Italiani, gli aerei volavano senza patemi, gli intellettuali non rompevano troppo le scatole e la cultura partiva dalla bella calligrafia e arrivava (in perfetto orario) alla più disciplinata delle rassegnazioni. Cioè al suo esatto contrario.

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sabato, settembre 20, 2008

 

Alitalia: Il prezzo pagato dai contribuenti


Repubblica — 19 settembre 2008 PRIMA PAGINA L' economia italiana è sull' orlo di una fase di recessione. Anzi, secondo Confindustria ci siamo già in pieno. In tutto il mondo non solo i banchieri centrali, ma anche i ministri economici e il loro staff sono concentrati sul compito arduo di capire le conseguenze sull' economia, sulle imprese e sulle famiglie, dello tsunami in atto sui mercati finanziari. Da noi, da lunghe settimane, l' attenzione di ben tre ministri (Trasporti, Lavoro e Attività Produttive) e dello stesso presidente del Consiglio è concentrata quasi interamente sulla vicenda Alitalia. Non solo il prezioso tempo dei ministri è a questa vicenda dedicato, ma anche quello delle nostre istituzioni, a partire dal Parlamento che sarà chiamato nelle prossime settimane a convertire i decreti legge varati ad hoc dal governo per convincere una cordata di imprenditori italiani ad avanzare un' offerta. Pur di tenere in piedi questa cordata, annunciata dal primo ministro in campagna elettorale, non si è esitato a calpestare le regole più elementari. Ieri sera si è tenuto un vertice a Palazzo Chigi dei ministri coinvolti nella trattativa. La Cai che aveva nel pomeriggio annunciato di ritirare l' offerta è stata sentita al telefono. Perché coinvolgere la cordata in un confronto ministeriale in cui si deve decidere cosa fare per il meglio dei cittadini italiani, piuttosto che di un gruppo di privati imprenditori? Non sarebbe stato meglio cominciare fin da subito a cercare eventuali nuovi acquirenti? Due giorni prima il presidente del Consiglio aveva minacciato di togliere i generosi ammortizzatori sociali promessi ai dipendenti Alitalia in esubero nel caso che le loro rappresentanze non avessero accettato il piano della cordata italiana. Come dire che, se si fosse fatto avanti qualche altro offerente, la cassa integrazione e la mobilità lunga non sarebbero state concesse. È un utilizzo degli ammortizzatori sociali senza precedenti. Da anni in Italia vengono usati come strumento di politica industriale anziché come misura sociale, di sostegno ai redditi delle famiglie che perdono il lavoro. Ma un sussidio dato solo a chi accetta una cordata di imprenditori privati, sponsorizzata dal presidente del Consiglio, non si era mai visto prima. Non ci si è accontentati di aver cambiato per Alitalia la legge Marzano, aumentando la discrezionalità del commissario straordinario e permettendogli di non fare alcuna asta pubblica delle attività della compagnia. Dopo l' apertura delle procedure per l' amministrazione straordinaria, non si è mai interpellato il mercato per vedere se c' era qualche acquirente disposto ad offrire di più della Cai per rilevare le attività della compagnia, riducendo in questo modo gli oneri che graveranno sul contribuente italiano. Non è affatto detto che non ci siano acquirenti in giro. Fino a ieri si era offerta sul mercato una compagnia gravata di debiti e, anche in quel caso, si erano trovati, acquirenti. Si pensi ad Air France. Oggi si offre solo l' attivo di Alitalia, con beni molto preziosi, come gli slot, il marchio, gli aerei. Per tutti questi motivi i costi della cordata annunciata in campagna elettorale sono già altissimi e andranno ben al di là dei tre miliardi che, tra debiti finanziari, prestito ponte, debiti con i fornitori, ammortizzatori sociali e interventi tutela degli azionisti, si profilano per il contribuente italiano. Ci sono tutti questi precedenti molto gravi che, d' ora in poi, verranno fatti presente dalle parti coinvolte in crisi aziendali per ottenere più aiuti dallo Stato. Forse è anche per questo che tutte le rappresentanze di interessi stanno seguendo al massimo livello la trattativa. Per tutti questi motivi è anche molto improbabile che ieri sia stata scritta la parola fine sulla Compagnia Aerea Italiana. (segue ...)

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Alitalia. "Precisatio non petita..." del Ministro Tremonti


Ricopio la lettera odierna del Ministro al Direttore di Repubblica, con la risposta di Tito BOERI, un gustoso scambio di precisazioni sull'articolo già postato qua sotto. "A volte ritornano".

Le mie dimissioni e il caso Alitalia - Giulio Tremonti - Ministro dell'Economia
Ho letto letto l'articolo pubblicato ieri sul suo giornale sotto il titolo "il prezzo pagato dai contribuenti". Per quanto mi riguarda leggo nell'articolo quanto segue: "Lo Stato ha già dato. Non ci saranno altri aiuti pubblici all'Alitalia... Pochi mesi dopo il Ministro... ricapitalizzava la compagnia".
E' un caso in cui gli economisti si dimostrano capaci di bucare non solo le previsioni sul futuro, ma anche le ricostruzioni del passato. Pochi mesi dopo? E precisamente nel luglio 2004 rassegnavo le mie dimissioni dal governo. Non entro nel merito della ricapitalizzazione, mi limito ad osservare che la relativa procedura è stata avviata nel secondo semestre del 2004.

Nell'aprile 2004 Giulio Tremonti aveva dichiarato: "Lo Stato ha già dato. Non ci saranno altri aiuti pubblici all'Alitalia. Nè attraverso una ricapitalizzazione, nè sotto forma di requisiti di sistema". E' vero che il Ministro si dimise nel luglio 2004. Ma il 10 novembre 2005 Tremonti era nuovamente Ministro dell'Economia e il Consiglio di Amministrazione di Altalia deliberava un aumento di capitale di circa un miliardo di euro. Riporto il comunicato del CdA: "Il ministero dell'Economia e delle Finanze ha dichiarato il proprio impegno a sottoscrivere l'aumento di capitale di Alitalia (...) Fintecna (ndr, società controllata dal Tesoro) ha sottoscritto un aumento di capitale in Alitalia servizi pari a 92 milioni di euro (...). A volte ritornano (tito boeri)

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Vendetta della realtà contro le semplificazioni del format di governo


Ecco un esempio di quanto Berselli sostiene. L'articolo è dell'ammirevole Giuseppe D'AVANZO, puntuale e sempre molto documentato e preciso. da Repubblica

C'è, tra i Casalesi, una banda di latitanti. Non più di sei o sette. In armi e cocainomani persi. C'è un boss (Francesco Bidognetti) che, in galera, potrebbe presto saltare il fosso e "cantare". "Pentito". Le sue incertezze gli fanno cadere la corona dal capo. Il territorio appare libero da ogni influenza (il boss l'ha perduta con i suoi tentennamenti) e i latitanti vogliono prenderselo per loro fin negli angoli, spremerlo fino all'ultimo euro.

Dalla primavera, gli assassini vanno in giro sparando e ammazzando e distruggendo per far sapere chi comanda, ora. In quattro mesi, hanno ucciso il padre di un "pentito"; ammazzato un imprenditore che si era rifiutato di pagare il pizzo (Domenico Noviello) e un altro che si preparava a testimoniare (Michele Orsi); hanno devastato con il fuoco la fabbrica di un terzo restio a piegarsi; hanno mancato per un pelo la nipote della compagna del "pentito" (Anna Carrino). Nelle ultime due settimane, non c'è stato in quell'angolo di Italia, lungo la via Domiziana, tra le province di Napoli e Caserta, una fabbrica, un'impresa, una bottega di qualche pregio che non abbia ricevuto la sua dose di raffiche di mitraglietta 7.62.

Ora, nella notte di San Gennaro, la strage degli africani dinanzi alla sartoria "Ob Ob exotic fashions" di Castelvolturno. Dicono, per punire uno o due spacciatori che non pagavano o che non era stati autorizzati a spacciare. Per gli assassini un nero vale un altro. E per fare un morto, sparando alla cieca 84 bossoli di 9×21 e 7.62, ne hanno lasciato a terra sei, venuti in Italia dal Ghana, dal Togo, dalla Liberia. Le vittime innocenti si raccoglievano davanti a quella piccola fabbrica-sartoria, alla fine della giornata di digiuno per il Ramadan, per consumare insieme l'unico pasto. È stata questa la sola colpa. Erano al posto sbagliato con un amico sbagliato. Erano uomini che lavoravano duramente per pochi euro all'ora, pregavano e rispettavano il loro dio, se ne stavano tra di loro.

Sono stati condannati dal colore della loro pelle e dalla convinzione della Camorra che i neri sono non-uomini, buoni per essere "cavalli" del traffico di stupefacenti, raccoglitori di pomodori per qualche euro l'ora, operai edili nei cantieri del Nord riforniti dal calcestruzzo dei Casalesi, il loro grande affare alla luce del sole.
Non è stato sempre così, da quelle parti. Come racconta Roberto Saviano, c'è stato un tempo che la gente della costa domizia "non era crudele con gli africani, non li guardava con nausea. Anzi". C'è stato un tempo che bianchi e neri lavoravano insieme, festeggiavano insieme, in qualche caso si sposavano anche e le ragazze nere erano ben accolte in casa come babysitter. "Col tempo però, ricorda Saviano, i potenti, i veri potenti, hanno diffuso un senso di paura, una diffidenza, una separazione imposta. Se proprio devono esserci contatti che siano minimi, che siano superficiali, che siano momentanei. Poi ognuno per sé ed il danaro solo per loro, i potenti".

Il comando dei Casalesi ha precipitato i neri in un mondo a parte di baracche, di stenti, di esclusione, sopraffazione, sfruttamento. E ora anche di morte. Una morte così ingiusta e insensata da essere intollerabile anche per chi, emigrato dall'Africa, ha perso ogni speranza di poter essere trattato con la dignità che si deve a un essere umano. È questa intollerabilità che ha provocato le violenze di ieri, quelle ore di devastazioni e rabbia pazza scatenata da un paio di centinaia di uomini, sordi al grido "Basta!" dei loro connazionali.

Quel che accade lungo la costa domizia è una vendetta della realtà contro le semplificazioni del format di governo che, come scriveva qualche giorno fa Edmondo Berselli, non descrive nulla della società contemporanea. È la rivincita del mondo reale sul posticcio affresco italiano diffuso da ministri, a quanto pare, popolarissimi. È "cronaca" che liquida in poche ore e per intero la logica, i paradigmi, si può dire l'universo mentale che sostiene, nella nuova stagione, le politiche pubbliche della sicurezza e dell'immigrazione.

La realtà ci racconta che il nero, l'altro, non è il nemico: è la vittima innocente. La "cronaca" ci dice, con un'evidenza cruda, quale sia il valore, il niente in cui è tenuta in considerazione la vita di un nero (in un disprezzo moltiplicato nella Campania criminale, dopo il pestaggio mortale di Abdul a Milano). Nel mondo reale di Castelvolturno l'aggressore, il criminale, l'assassino non è l'immigrato ma l'italiano. E un tipo di italiano e di italianità diffusa nel Mezzogiorno, organizzata in Mafia, capace di tenere il potere dello Stato in un cantuccio, di governare il territorio, di succhiarne le risorse pubbliche e private, di decidere della vita e della morte degli altri, di ridurre gli altri, se neri, in uno stato di schiavitù, di non-umanità, dopo aver avvilito a sudditi i cittadini italiani. Nell'arco di una mezza giornata vengono alla luce, nella loro essenzialità, l'inconsistenza e i trucchi, il furbo conformismo di una politica che sa soltanto eccitare e inseguire le paure, gli egoismi e furbizie di italiani confusi e smarriti.

Gli italiani vogliono prostitute, ma non vederle sotto casa: il governo le punisce e le nasconde senza curarsi di chi controlla la "tratta delle schiave" e ne incassa gli utili. Gli italiani vogliono cocaina, ma non lo spacciatore nella strada accanto: il governo mostra qualche soldato in armi per strada per fare la faccia feroce senza curarsi delle 600 tonnellate l'anno di cocaina che 'ndrangheta e camorra importano in Italia; senza darsi pensiero della grande operazione di marketing lanciata al Nord dalle mafie che vendono ai teenager una bustina di "bianca" per dieci euro. Gli italiani vogliono lavoro a basso costo e in nero, ma non i clandestini. E il governo crea il reato di immigrazione clandestina e il lavoro diventerà ancora più nero e ancora più a basso costo e diffuso e clandestino.

E allora perché meravigliarsi se i Casalesi, una banda di assassini, che controlla gli affari di droga e utilizza nelle sue imprese il lavoro nero, possono pensare di fare una strage di neri solo per ammazzarne uno? Quanto vale un nero? Niente. Davvero qualcuno si scandalizzerà oggi se duecento di quei niente hanno gridato per un pomeriggio la loro rabbia?


20 settembre 2008
nota: i grassetti sono di gufo

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Quando la politica diventa un format

Repubblica — 18 settembre 2008 PRIMA PAGINA
Ecco un pezzo di grande interesse.

EDMONDO BERSELLI spiega il sorprendente perdurare della luna di miele ...

E se la democrazia contemporanea fosse più vicina a un format che a un complesso strutturato di regole? Nella politica come gioco mediatico, le percentuali di gradimento per il governo schizzano in alto. L' audience appare soddisfatta. Eppure qualcuno dovrà pur chiedersi quali sono le ragioni del consenso che sta accompagnando Silvio Berlusconi. Dati addirittura «imbarazzanti», ha confessato il premier reprimendo un brivido di piacere di fronte a quel 60 per cento di favorevoli che campeggia nei sondaggi. L' imbarazzo è un sentimento soggettivo; a sinistra, invece, il picco di popolarità è considerato inspiegabile. Anche osservando da vicino l' azione dell' esecutivo e dei singoli ministri riesce difficile spiegare il perdurare della luna di miele. Difatti, a causa di quelle congiunture economiche sfortunate a cui Berlusconi e Tremonti sembrano condannati, la crescita è praticamente sottozero; l' inflazione ha rialzato la cresta; i consumi flettono; parti consistenti della società italiana avvertono il peso di un andamento economico sfavorevole. Sullo sfondo si intravede l' incubo del Ventinove. E allora? Allora è probabile che per il momento serva a poco giudicare il governo Berlusconi con le categorie tradizionali della politica e dell' economia. Occorre invece un approccio culturale, se non addirittura antropologico: il governo e i ministri più popolari sono riusciti, chissà se per intenzione esplicita o per un caso fortunato, a imporre un modello, una forma specifica di comunicazione. Anzi, un format. Come in un programma televisivo di successo, Renato Brunetta, Roberto Maroni, Mariastella Gelmini, e perfino la "new entry" Mara Carfagna, sono riusciti a trasmettere un contenuto secondo modalità standardizzate, di tipo essenzialmente mediatico-televisivo, e quindi a mettersi in comunicazione con il pubblico (ovvero lo stadio di implosione nella privacy a cui è stata consegnata l' opinione pubblica). Il maestro del format è ovviamente Berlusconi. È stato lui per primo a dare una cornice competitiva e spettacolare alla politica, separando gli italiani «della libertà» dai «comunisti», e quindi a declinare la gara elettorale come un giudizio di Dio fra due Italie separate e inconciliabili. (segue...)

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